Può sembrare un paradosso di fronte a entrate che, per l’erario irlandese, equivarrebbero al budget sanitario di un anno intero. Tuttavia bisogna considerare le ricadute future per l’attrattività di Dublino, vero e proprio magnete per le multinazionali (soprattutto americane), spinte a stabilirsi nella capitale irlandese dal regime fiscale favorevole.
La sola Apple in Irlanda dà lavoro a 5.500 persone, una persona su cinque nel Paese lavora in una multinazionale. Il contributo di questi investimenti è stato decisivo per la ripresa dell’isola da una grave crisi economico-finanziaria che l’ha obbligata, nel 2010, a chiedere un piano di aiuti internazionali da 67,5 miliardi.
L’accusa
L’accusa nei confronti di Dublino e Apple riguarda due “tax ruling” del 1991 e del 2007, accordi fiscali relativi agli utili imponibili di due società di diritto irlandese appartenenti al gruppo (Apple Sales International e Apple Operations Europe) alle quali facevano capo tutti i profitti derivanti dalle vendite in Europa della multinazionale. Grazie ai tax ruling, solo una piccola parte di questi utili veniva tassata con la già favorevole corporate tax irlandese (12,5%); la quasi totalità veniva invece attribuita a una “sede centrale” che non aveva nessun ufficio reale né dipendenti e le cui attività consistevano esclusivamente in sporadiche (e brevi: non più di 20 minuti) riunioni del consiglio di amministrazione. In virtù di specifiche disposizioni del diritto tributario irlandese, oggi non più in vigore, gli utili attribuiti alla sede centrale non erano dunque soggetti a tassazione in nessun Paese. In questo modo la multinazionale di Cupertino, secondo la Commissione, ha pagato sugli utili di Apple Sales International soltanto un’aliquota effettiva dell’imposta sulle società che dall’1% del 2003 è via via scesa fino allo 0,005% del 2014.
Redazione Commercity Blog